“Non devono esistere generazioni perdute, perché solo i giovani possono ricostruire questo paese: le loro nuove esperienze e competenze ci raccontano un mondo che cambia, il loro mondo. Rinunciare a investire su di loro è un suicidio economico. Ed è la certezza di decrescita, la più infelice”. È quanto ha affermato il premier Enrico Letta nel discorso del 29 aprile per la fiducia alla Camera. Parole più che condivisibili, ma dopo decenni di promesse vane e di politiche deludenti i giovani vogliono solo fatti. Troppo scottati dall’inadempienza dei governi precedenti, aspettano azioni concrete.
Non a caso, come confermano in modo coerente varie indagini, è aumentata molto la sfiducia non solo nella politica, ma nella classe dirigente italiana in generale. Incapacità del paese di crescere e scadimento delle prerogative delle nuove generazioni sono diventate due facce della stessa medaglia. Il prodotto interno lordo è passato da una crescita media del 3,6 per cento degli anni settanta al 2,4 degli anni ottanta, all’1,6 per cento degli anni novanta, fino al modestissimo 1,1 per cento negli anni pre-crisi del primo decennio di questo secolo.
Nel contempo, è diminuito il peso demografico delle nuove generazioni, diventando uno dei più bassi in Europa. Ma, paradossalmente, non solo i giovani sono di meno, essi hanno trovato anche meno investimenti e incentivi a essere attivi e partecipativi nella società e nel mondo del lavoro. La percentuale di quelli che hanno un’occupazione è di oltre 10 punti percentuali più bassa rispetto alla media europea. L’incidenza dei Neet (under 30 che non studiano e non lavorano) è vicina al 20 per cento, solo la Bulgaria è messa peggio di noi. Tra i giovani adulti la percentuale di chi ha formato una propria famiglia è tra le più basse. Le nuove generazioni italiane trovano quindi più difficoltà, sia rispetto al passato sia relativamente ai coetanei degli altri paesi, nel conquistare una propria autonomia dalla famiglia di origine e nel realizzare le condizioni per
formarne una propria. Questo evidentemente accentua ulteriormente, in prospettiva, la bassa natalità e quindi anche l’invecchiamento.
Le difficoltà di stabilizzazione occupazionale e di adeguata remunerazione producono anche una grave perdita di fiducia, in primis verso la società, che non offre loro spazio e non li valorizza, ma poi anche verso se stessi e le proprie capacità. Con l’esito di incentivare la strategia di uscita verso l’estero o a rivedere al ribasso le proprie aspettative, a dar di meno rispetto a quanto potrebbero lasciando in larga parte sepolti i loro talenti. Se il governo Letta considera le nuove generazioni una delle risorse cruciali per far tornare il paese a crescere e a produrre benessere, non può limitarsi a fare qualche intervento marginale che renda meno doloroso l’effetto della crisi. Servono certo anche azioni immediate – come quelle inserite nel decreto legge sul lavoro approvato il 26 giugno –, che incoraggino nel breve periodo le imprese ad assumere e a stabilizzare chi ha contratti a termine.
Senza contare l’altro segno dell’impegno di questo governo, la determinazione con cui è riuscito a ottenere dal vertice europeo del 28 giugno nuovi fondi per rilanciare l’economia e la crescita. Risorse utili per reagire all’emergenza, destinate ai paesi saliti con la crisi a oltre il 25 per cento di disoccupazione giovanile. Azioni soprattutto di contenimento dell’impatto della recessione, che però lasciano inalterati gli ostacoli di fondo, quelli che già prima della recessione rendevano la partecipazione delle nuove generazioni italiane tra le più basse a livello europeo. Sul piatto ci sono però anche altre proposte che – se implementate con approccio e strumenti adeguati – potrebbero diventare l’occasione per un vero cambiamento di marcia: si tratta della Youth Guarantee e della cosiddetta “staffetta generazionale”. La cui importanza sta soprattutto nell’incentivo a ripensare il ruolo del welfare pubblico.
Quello che va costruito, seguendo le migliori esperienze europee, è infatti un modello sociale non solo più in grado di proteggere, ma anche di promuovere, fornendo soprattutto strumenti attivi ai giovani per guadagnare una propria autonomia dalla famiglia di origine, trovare impiego e rimanere inseriti nel mercato del lavoro, costruendo solidi percorsi di vita. In mancanza di tali strumenti attivi, diventa più difficile sia difendersi dai rischi che cogliere le nuove opportunità dei cambiamenti in corso. Con tale lacuna siamo così diventati uno dei paesi che incentivano più la dipendenza passiva dalla famiglia di origine e che meno incoraggiano l’intraprendenza e la presenza attiva dei giovani nel mondo del lavoro. Questo crea un sistema non solo iniquo e poco dinamico, ma anche poco efficiente, perché non consente nella società e nel mercato del lavoro un’allocazione ottimale delle risorse.
Rispetto alle altre economie avanzate, la possibilità di ottenere posizioni di rilievo nel mondo del lavoro dipende molto più dalla famiglia in cui si è nati che dall’investimento dei singoli sulle proprie qualità. I dati di una recente ricerca dell’Ocse mostrano come l’Italia sia uno dei paesi con più alta correlazione tra livello delle retribuzioni dei figli e quello dei padri. Un dato che conferma in modo inequivocabile come il nostro sia, più di altri, un sistema che non valorizza le effettive capacità e che deprime la mobilità sociale. L’obiettivo di fondo della Youth Guarantee è di fare in modo che nessun giovane sia più abbandonato a se stesso o all’aiuto passivo della famiglia. Si tratta di una proposta che impegna a garantire, entro quattro mesi dal termine degli studi o dalla perdita di un impiego, una buona offerta di lavoro, oppure un contratto di apprendistato, un tirocinio di qualità, o almeno un corso di formazione professionale.
Questo schema può funzionare e riattivare in modo strutturale la partecipazione delle nuove generazioni nel mercato del lavoro solo se diventa un’occasione per ripensare al ruolo dei centri per l’impiego in coerenza con quanto già avvenuto nelle migliori esperienze europee. La loro funzione è quella di valutare le esigenze formative, di potenziare le competenze, di fornire orientamento, di agevolare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, di sorvegliare l’effettiva realizzazione delle azioni previste. Non come sale d’attesa ferroviarie in cui si ammazza più o meno utilmente il tempo aspettando la coincidenza successiva, vanno intesi piuttosto come i pit stop della Formula Uno: ci si ferma per immettere nuovo carburante, ma si coglie anche l’occasione per cambiare le gomme e adattarle ai cambiamenti del tempo, oltre che per ricalibrare gli strumenti dell’auto da corsa, così da poter tornare in pista più veloci di prima.
Se davvero la Youth Guarantee incentiverà tale trasformazione, a guadagnarne non sarà solo chi è giovane, ma anche i più anziani. Anche la valorizzazione delle competenze in età matura non può avere successo se si abbandonano i lavoratori a se stessi, imponendo solo di andare in pensione più tardi. I centri per l’impiego possono avere un ruolo cruciale per aiutare le persone, in qualsiasi momento del loro percorso lavorativo, ad aggiornarsi, a riallineare professione e scelte familiari, a valutare la possibilità di cambiare impiego o a provare a svolgere attività in proprio. Analogamente, la cosiddetta “staffetta generazionale” può migliorare le condizioni sia dei lavoratori giovani che di quelli maturi. Per funzionare bene deve essere applicata in modo da rappresentare un effettivo vantaggio per tutti, migliorando nel contempo la fase di chi esce e quella di chi entra. Il lavoro dei giovani e dei senior va infatti sempre più integrato con adeguate politiche pubbliche e aziendali e non messo in competizione.
Dopo anni di politiche che hanno peggiorato la condizione delle nuove generazioni nel mercato, con ricadute negative che si sono poi estese anche al resto dei lavoratori, potremmo ora avere l’occasione di invertire la rotta e iniziare una nuova stagione che, a partire dal miglioramento dell’accesso dei giovani, metta in campo misure in prospettiva a beneficio di tutte le fasi della vita. Mettendo al centro il lavoro di tutti, valorizzando capacità e competenze di ciascuno, l’Italia può davvero ripartire.
Autore: Alessandro Rosina - Docente di Statistica presso la facoltà di Economia della Cattolica di Milano
Pubblicato su rassegna.it
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